Seguire l’esempio di Zapatero
Per una TV pubblica fuori dal controllo della politica

L’anomalia mediatica italiana e i casi di epurazione sistematica degli ultimi anni hanno avuto, come è noto, conseguenze devastanti per il nostro Paese dal punto di vista dell’immagine internazionale.
Non solo il declassamento a Paese “Parzialmente libero” ad opera dell’organismo americano indipendente Freedomhouse, ma anche una particolare attenzione da parte del Parlamento Europeo e delle Nazioni Unite sulle condizioni della libertà d’informazione.
Sintomo significativo di questa situazione soprattutto televisiva è il proliferare nelle librerie di spettacoli censurati dal piccolo schermo e di “film d’inchiesta” alla Michael Moore: dallo spettacolo teatrale di Paolo Rossi (cancellato dopo il primo atto) al documentario satirico della Guzzanti “Viva Zapatero!” fino al reportage sulla mafia di Bianchi e Nerazzini, due giornalisti della squadra di Michele Santoro.
Ma perché siamo arrivati a dover spendere 20 euro per vedere della satira tagliente o per sentir parlare di mafia e politica?
Semplicemente perché, oggi più che mai, è la politica che decide di cosa si deve parlare in TV; un sistema di lottizzazione tutto italiano garantisce infatti alla classe politica di nominare più o meno direttamente i responsabili dei posti chiavi in Rai. Stando così le cose i partiti politici possono influenzare fortemente l’agenda soprattutto per quanto riguarda l’informazione di approfondimento.
Ma se si pensa che questo faccia parte storicamente e inesorabilmente del sistema televisivo pubblico, oggi si è riusciti a rendere consuetudine anche la così detta censura preventiva, ovvero l’eliminazione di un certo modo “sgradito” di fare TV a fini, per così dire, educativi, facendo intendere cosa si può e cosa non si può approfondire. È l’intimidazione psicologica, propria dei regimi mediatici, che delinea senza fare rumore il recinto entro il quale si deve muovere l’informazione; per questo si censura sia a destra che a sinistra e più in generale chiunque voglia manifestare liberamente il proprio pensiero, come garantito dall’articolo 21 della nostra Costituzione.
Chi si adegua al sistema continua a fare televisione e magari, anche a dispetto degli ascolti, fa carriera; chi dimostra di essere fedele a se stesso e alle sue idee e non a qualche o a tutti i partiti, diventa automaticamente pericoloso e viene allontanato. Quindi è la politica che decide chi deve fare televisione e chi no, a dispetto di ciò che vogliono gli spettatori: non a caso le apparizioni degli epurati riscuotono sempre enormi successi di ascolto, nemmeno fossero boccate d’ossigeno per il pubblico televisivo (Santoro e Guzzanti da Celentano, Luttazzi da Baudo, Travaglio da Lerner).
Lo status quo del tubo catodico deve però essere mantenuto, quindi si escludono prontamente scomodi concorrenti: è il caso del progetto La7, nata originariamente come alternativa commerciale a Mediaset e uccisa nella culla di possibile TV fuori dal coro, nonostante le consistenti offerte pubblicitarie. È anche il caso di Europa 7, beneficiaria delle concessioni per trasmettere ma non delle frequenze, occupate da Rete 4 anche grazie alla legge Gasparri, sebbene una sentenza della Corte Costituzionale l’avesse già dichiarata fuorilegge e da trasferirsi sul satellite.
Il sistema quindi è, di fatto, impermeabile alla concorrenza; la TV privata raccoglie buona parte degli introiti pubblicitari, la TV pubblica è occupata dai partiti, che non esauriscono il concetto di “pubblico”, anche perché il servizio pubblico deve dar voce anche a chi non vota, non solo a chi si riconosce in un partito politico. Per di più la Rai è controllata dalla politica attraverso una Commissione di vigilanza, quindi è ribaltato il rapporto che c’è negli altri paesi, dove televisione e politica sono nettamente separati (recente il caso di Zapatero che ha fatto una legge a questo scopo), anzi dove TV e giornalisti fungono da controllori del potere politico, non viceversa.
È chiaro che l’anomalia è tutta italiana; persino dalla Svezia se ne sono accorti, tanto che prendono in giro con uno spot il nostro premier e la nostra televisione, considerata non libera.
Le speranze non sono molte ma noi un desiderio per il 2006 lo esprimiamo lo stesso: un “effetto Zapatero” sul centrosinistra nel caso vinca le elezioni politiche, un effetto domino sui paesi che si dicono democratici, per una televisione che sia veramente di tutti i cittadini.

Francesco Serafini


Cultura e spettacolo – mercoledì 28 dicembre 2005 ore 19:23