John Coltrane, vera stella del firmamento jazz
S. Benedetto T. - Bitches Brew, terzo appuntamento con la storia del jazz

E’ stato l’indimenticabile sassofonista John Coltrane, ieri alle 21,30, il protagonista del penultimo incontro dell’interessantissima rassegna sulla storia del jazz intitolata “Africa/Sacro/Diritti Civili. I mondi di Duke Ellington, Charles Mingus, John Coltrane”. Con lui si è chiusa la serie di incontri dedicata ai maestri del jazz. Il quarto appuntamento ovvero l’ultimo ci sarà questa sera alle ore 22,00 al Bitches Brew Jazz Club dove è prevista una serata “Jam Session” di vari artisti che, coordiati da Maurizio Rolli chiuderanno definitivamente questa rassegna magistralmente ideata e condotta da Rodolfo Dini, studioso di jazz e responsabile del Centro multimediale Pianeta Musica della Biblioteca Comunale di San Benedetto del Tronto in collaborazione con l’associazione culturale Bitches Brew nei cui locali, situati presso Hotel International, (Lungomare Rinascimento, 42) di San Benedetto del Tronto, si è tenuta l’iniziativa.
Che dire di John Coltraine. “Trane” come lo chiamavano gli amici, è sicuramente la vera stella del firmamento della musica jazz. Colui che ha portato il jazz alle estreme conseguenze e che la prematura morte avvenuta a soli 41 anni (era nato nel 1926) ha impedito di riformulare in termini compiuti.
Era una persona molto spirituale e mite alla continua ricerca dell’equilibrio interiore e della pace attraverso la convulsione della sua musica. Secondo Dini, Coltraine è tutto in una frase che pronunciò nel 1957 quando decise in un sol colpo si smettere di fumare (unica cosa che non gli riuscì), di bere e soprattutto di drogarsi. “Durante l’anno 1957” sono le parole di Trane “sperimentai, per grazia di Dio, un risveglio spirituale che doveva condurmi ad una vita più ricca, più piena e più prolifica. A quel tempo, per gratitudine, chiesi umilmente che mi venissero concessi i mezzi e il privilegio di rendere felice gli altri attraverso la musica. Sento che ciò mi è stato accordato per Sua grazia. Ogni lode a Dio”. I mezzi ovvero la dedizione totale alla musica gli vennero concessi e gli ultimi dieci anni (tanti furono quelli che guadagnò grazie alla sua “rinascita”) della sua vita furono dedicati ad una intensa attività musicale in cui egli impiègò tutte le sue energie in una maniacale ricerca tesa a “travalicare gli orizzonti del jazz conosciuti in quel periodo” ha affermato Dini “e scoprire qualcosa di ignoto anche a se stesso”. Forse a ricercare quel suono universale che lo aveva portato a disegnare una sorta di mappamondo pieno di numeri da cui ricavare delle scale di modi. Il processo creativo di Coltrane è stato analizzato da Dini con lo stesso criterio utilizzato per gli artisti dei primi due incontri ossia esaminare come la ricerca delle proprie radici africane, la spiritualità e l’impegno civile hanno partecipato alla sua musica. Come ha sostenuto Dini, per sbirciare in questa “mappa cosmica” bisogna partire dal 1957 quando uscì dall’incubo della droga e dell’alcol. A questo punto Dini ha fatto un breve excursus della vita professionale dell’artista. Dall’ingaggio nel quartetto di Thelonious Monk avvenuto nell’estate del 1957 al ritorno con Miles Davis che due anni prima lo aveva cacciato forse perché Coltraine non riusciva a disintossicarsi dall’eroina. Da Monk, Trane, prese lezioni di sassofono, di ritmo e apprese l’arte della multifonia che continuò a studiare a lungo e che utilizzò in maniera tanto efficace quanto sorprendente. Se il contatto con Monk gli aveva fatto acquisire uno stile un po’ contorto con Davis tornò ad uno stile più semplice. Grazie a Davis il jazz e Coltrane , scoprirono nuova fase musicale: la modalità. “Una prassi” ha spiegato Dini “dove non si parte più da sequenze di accordi ma da scale di modi, (…) dove avere più spazio e più libertà di movimento melodico così da rendere più affascinante e godibile l’improvvisazione”. L’album di Davis che segnò il momento di cambiamento e che rappresentò una sorta di manifesto modale fu “Kind of Blue” del 1959, in cui Davis insieme a Coltrane e Bill Evans dà vita ad uno dei più importanti dischi della storia, una vera e propria pietra miliare del jazz. A questo punto Coltrane era pronto per mostrare al mondo la sua musica e nel 1960 inaugurò, finalmente, una propria formazione in quartetto con piano, contrabbasso e batteria ed incise “Giant Steps”. Il titolo che traduce “passi da gigante” “è un po’ a doppio senso” ha notato Dini “Trane allude a sé stesso per i giganteschi passi di scoperte che erano avvenute a contatto con Monk e con Davis, ma anche ai paurosi salti di tonalità che l’improvvisatore virtuoso deve affrontare (…). Trane scopre, nel cimentarsi su queste modulazioni, una sorta di trangolo che per lui ha un senso numerologico, cabalistico”. “La magia del numero assunse in ‘Giant Steps’” scrive lo storico Marcello Piras “forme discorsive, (…) una sorta di eterno ritorno e (…) Coltrane girando vorticosamente in questo cerchio ottico prende il volo portando a termine un capolavoro di trionfante, inarrivabile forza ascensionale”. Ad un certo punto Coltrane diede vita, in questo album, ad un brano struggente e romantico che rappresenta una pagina di intensa emotività che avvince fin dall’apertura ad opera del sax. Il brano, che è stato il primo ad essere ascoltato, si intitola “Naima” e fu dedicato dall’artista alla prima moglie. Dopo questo album Coltrane si immerse nello studio della tecnica modale e la nuova pietra miliare trova la sua giusta collocazione nell’incisione, nel 1961, di “My Favorite Things” che suonò con il nuovo quartetto formato da: McCoy Tyner al pianoforte, Steve Davis (poi sostituito da Jimmy Garrison) al contrabbasso e Elvin Jones alla batteria. L’album comprende quattro splendidi standard: “My Favorite Things”, “Every Time We Say Goodbye”, “Summertime” e “But Not For Me”. Con “Summertime” l’Africa entrò nella sua vita. “Questa incantevole ninna nanna con cui Clara addormenta il piccolo nella pace notturna” ha osservato Dini “proprio all’inizio viene trasformata, da Coltrane, in una minacciosa danza tribale”. Nelle note di copertina dell’album singolo “Africa”, inciso nello stesso anno, si legge “Volevo cercare un suono che rappresentasse l’Africa, la sua storia, il suo spirito, la sua gente”. Secondo brano ascoltato, “Africa” è un pezzo di sconvolgente bellezza e al tempo stesso un annuncio di cosa sarebbe stato il jazz negli anni ’60. “Una musica profondamente, orgogliosamente nera” ha sottolineato Dini “uno schiaffo alla presunzione di superiorità dell’uomo bianco vibrato, non con affronti verbali, ma su un terreno squisitamente musicale”. Non solo l’Africa affascinava Coltrane, anche l’Asia come l’oriente costituivano per lui importanti riferimenti legati alle sue letture mistiche e alla sua idea religiosa. Idea che si potrebbe definire pan-religiosa ossia riferita ad un’idea universale di amore e di armonia cui la sua musica avrebbe dovuto essere una raffigurazione. Dunque in Coltrane la ricerca e il contatto con le proprie radici africane si fusero con la dimensione religiosa. Dini ha rilevato che in Coltrane la visione del sacro si articola in due grandi categorie: il sacro africano e il sacro asiatico. “Il primo si esprime sotto il dominio del ritmo” ha spiegato Dini “in pagine rapide, incalzanti, concitate. E’ una religiosità dionisiaca di impronta africana in cui la “trans” riveste un ruolo importante di perdita di sé e di congiunzione attraverso il rito”. “Il sacro asiatico” ha continuato Dini “è ispirato, invece, a precetti di calma, di equilibrio, di estasi, di armonia delle parti. Aspetti legati alle religioni e alle filosofie asiatiche ma anche al Cristianesimo e molto vicino all’idea del dionisiaco di ascendenza greca”. Questi caratteri si ritrovano nell’album forse più famoso di Coltrane: “A Love Supreme”, un inno di ringraziamento e lode a Dio. Un Dio, come si è gia detto, universale. Ma l’opera è anche profondamente personale e autobiografica. Coltrane infatti si riferisce alla crisi cui era piombato sette anni prima e dalla quale venne fuori proprio con l’aiuto di Dio. Registrato a New York nel dicembre del 1964, l’album è un itinerario mistico diviso in quattro movimenti: Acknowledgment, Resolution, Pursuance e Psalm. Terzo brano ascoltato “Psalm” costituisce la preghiera di ringraziamento finale del metafisico salmo dove, in chiusura “la voce del sax tenore (Coltrane)” ha osservato Dini “si sdoppia e sembra ascendere al cielo attraverso le suggestive, incredibili nubi sonore prodotte dal batterista (Elvin Jones)”. Con quest’opera Coltrane chiuse un capitolo della sua ricerca e si accinse a voltare pagina. Una pagina che occuperà gli ultimi tre anni della sua vita ed in cui concentrò tutte le sue energie nello studio di un linguaggio musicale che superasse la modalità e si caratterizzasse in espressioni libertarie, informali aperte. Fu così che nel 1965, considerato da molti l’anno più fecondo, per quantità e qualità, di tutta la carriera di Coltrane, “convocò nello studio” ha ricordato Dini “un gruppo di undici esecutori tra i più illustri esponenti del free più virulento, più impegnato, più afro per dare vita ad una titanica improvvisazione collettiva che impegnerà un intero long plane”. L’opera realizzata fu “Ascension” ultimo brano ascoltato, che segna il definitivo passaggio di Coltrane nelle file dell’avanguardia jazzistica. E con “Ascension” arriva anche l’impegno politico infatti il contesto in cui l’album nasce è tutt’altro che pacifico. La lotta dei neri americani contro i loro padroni si era inasprita ed era stata crudelmente repressa. Da qui l’urgenza di urlare di esprimere la propria sofferenza, di colpire l’orecchio altrui. Durante l’incisione persino i presenti in studio non poterono trattenersi dall’urlare. Lo stesso assolo di Coltrane non può che essere definito un lungo straziante urlo. Piras ha scritto “E’ un’allucinante visione infernale di fuoco e di fiamme che costituisce in un certo senso l’antimondo di ‘A love Supreme’.
L’incontro si è concluso con il consueto video dove musica e immagini hanno riproposto i brani dei concerti più famosi (da “My Favorite Things” ad “Afro Blue”, da “Impressions” ad “Alabama”) di un artista dalla tecnica eccezionale, il sax tenore più imitato degli ultimi 40 anni che partendo dall’hard pop e passando per il jazz modale, è arrivato ad un free tormentato fatto di continue esplorazioni della materia sonora, interminabili corpo a corpo con il sax per arrivare, percorrendo la strada più dura, alla pura bellezza.


Nicoletta Amadio

Cultura e Spettacoli, 2004-04-02